Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la principale causa di morte a livello globale, nonostante le numerose iniziative volte a tenere sotto controllo i tanti fattori di rischio identificati negli anni. Tra questi fattori rientrano anche i valori di pressione sanguigna sistolica (la “massima”) e diastolica (la “minima”) che per molte persone si rivelano superiori ai valori raccomandati. I dati italiani del Progetto Cuore dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano per esempio che nel Bel Paese il 53,7% degli uomini e il 40,3% delle donne di età compresa tra 35 e 74 anni è iperteso.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’alimentazione gioca un ruolo di primo piano nel prevenire l’ipertensione e le attuali strategie in questo senso si basano per esempio su una riduzione dei grassi e un aumento delle fibre introdotti con la dieta e su regimi dimagranti nel caso di sovrappeso o di obesità. Anche una maggiore attenzione all’indice glicemico (descritto in dettaglio nella rubrica “Lo sai che…”) potrebbe però risultare importante nel ridurre la pressione sanguigna come dimostrano anche i dati di uno studio recentemente pubblicato sulla rivista American Journal of Clinical Nutrition. Secondo quanto emerge dalla ricerca una riduzione mediana di 10 unità nell’indice glicemico può ridurre pressione massima e minima di 1,1 mmHg e 1,3 mmHg rispettivamente. Valori che possono sembrare trascurabili a livello singolo, ma che in realtà a livello di popolazione non lo sono affatto dal momento che la riduzione media di 2 mmHg della pressione massima e di 1 mmHg della minima si associa a una diminuzione media del 10% del rischio cardiovascolare.
Oltre che per mantenere sotto controllo la pressione sanguigna, l’indice glicemico potrebbe essere un parametro fondamentale per gestire il peso corporeo e riuscire a far fronte alla crescente epidemia di obesità e sovrappeso. Questa affermazione si basa tra l’altro anche sulla considerazione che una dieta a basso indice glicemico sembra influenzare il senso di sazietà, aiutando a ridurre il consumo di cibo, ma i dati in proposito sono ancora contrastanti. Quel che è certo è che i cibi ad alto indice glicemico fanno salire i livelli di glucosio e di insulina molto velocemente, ma dopo questo picco iniziale sopraggiunge una fase di crollo della concentrazione di glucosio nel sangue che porta spesso a fame e a un eccessivo consumo di cibo. Uno studio spagnolo recentemente pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition conferma che una dieta ipocalorica a basso indice glicemico è migliore di una ad alto indice glicemico nel ridurre il peso corporeo e nel tenere sotto controllo il metabolismo di glucosio e insulina. Sono giunti a conclusioni molto simili anche gli autori di uno studio condotto su pazienti con diabete di tipo 2 e pubblicato su Archives of Endocrinology and Metabolism.
Nel 1998 la Food and Agricolture Organization (FAO) delle Nazioni Unite suggeriva che l’indice glicemico degli alimenti – un indicatore introdotto nel 1981 per determinare la qualità dei carboidrati – potesse determinare lo stato di salute degli individui. Dopo oltre 20 anni sono ancora molti gli esperti che si chiedono se le raccomandazioni e le indicazioni per una dieta personalizzata debbano basarsi su questo indice o comunque tenere in maggior considerazione la risposta glicemica quando si decide di disegnare un regime alimentare “su misura”. Su questo argomento la rivista Cell ha pubblicato un articolo nel quale un gruppo di ricerca israeliano si concentra proprio sull’idea di personalizzare la dieta sulla base delle risposte glicemiche dei singoli individui. “Dopo uno stesso pasto abbiamo osservato una grande variabilità nei livelli di glucosio nel sangue delle persone che hanno preso parte allo studio” spiegano gli autori che hanno sviluppato un algoritmo per prevedere la risposta glicemica basato su parametri come le abitudini alimentari, l’attività fisica e la composizione del microbiota intestinale (la cosiddetta “flora batterica”) di ciascun individuo. Utilizzando tale strumento è stato possibile, secondo gli autori, disegnare regimi alimentari davvero su misura, capaci di tenere sotto controllo gli sbalzi nelle concentrazioni di glucosio dopo i pasti, un obiettivo importante anche in termini di prevenzione del diabete di tipo 2.
Fonti:
1. Townsend N, et al. Eur Heart J. 2016 Nov 7;37(42):3232-3245.
2. Evans CE, et al. Am J Clin Nutr. 2017 May;105(5):1176-1190.
3. Progetto cuore. http://www.cuore.iss.it
4. Augustin LS, et al. Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2015 Sep;25(9):795-815.
5. Juanola-Falgarona M, et al. Am J Clin Nutr. 2014 Jul;100(1):27-35.
6. Gomes JMG, et al. Arch Endocrinol Metab. 2017 Mar-Apr;61(2):137-144.
7. Zeevi D, et al. Cell. 2015 Nov 19;163(5):1079-1094.