Una risposta, molto interessante sul piano scientifico, viene da una ricerca dell’Università di Michigan pubblicata su Cell Host & Microbes, coordinata di Nicholas Pudio.
Tutto parte da una scoperta di qualche tempo fa. Analizzando il patrimonio batterico di un soggetto in Giappone, alcuni ricercatori si sono accorti che nel microbiota era presente una componente genetica in grado di metabolizzare un particolare carboidrato complesso, chiamato porfirano, presente nelle alghe che vegetano nelle fredde acque degli Oceani. Si è così capito che questi geni batterici di natura “oceanica” possono in qualche modo entrare a far parte del patrimonio di varietà di specie che abitano il nostro apparato digerente. In pratica, visto che i polisaccaridi presenti nelle alghe hanno strutture chimiche diverse rispetto a quelli presenti nella frutta, nei cereali e nelle fibre, c’è bisogno di specifici ceppi batterici capaci di “lavorare” sui composti presenti nelle alghe, come accade per batteri del tipo Bacteroidetes, che si ritrovano nelle vie digestive dell’uomo.
Gli esperti americani hanno analizzato quindi prelievi fecali di studenti della stessa Università e di soggetti di specifiche aree geografiche, andando ad esaminare la specifica capacità dei batteri presenti di degradare e quindi favorire il metabolismo di specifici polisaccaridi presenti nelle alghe, come appunto il porfirano, la laminarina ed altri. Così si è visto che se per la laminarina la somiglianza di questa sostanza con quanto presente nei beta-glucani che fanno parte dei cereali che spesso assumiamo rendeva comune la presenza di ceppi batterici “ad hoc”, per il porfirano e l’agarosio delle alghe presenti nei mari del sud-est asiatico la risposta del microbiota è risultata più efficiente nelle persone che originavano da quelle aree.
I geni per la degradazione del porfirano sono stati infatti arricchiti in campioni provenienti da Cina e Giappone. Soprattutto, però sul fronte del microbiota e della componente genetica, cioè il microbioma, si è visto che i batteri Firmicutes, ancora più diffusi nell’intestino umano rispetto ai Bacteroidetes, hanno anche acquisito la capacità genetica di crescere sui polisaccaridi delle alghe. Insomma: anche dal mare viene la conferma che l’ambiente e l’alimentazione portano progressivamente a modificazioni nelle varietà del microbiota, con una sorta di “adattamento” che rappresenta una strategia fondamentale per il benessere. Sempre con la regola della varietà che rimane fondamentale.
Il sentire comune nei confronti dei batteri è equamente diviso fra pensieri di pericolosità e di esseri molto piccoli e, in quanto piccoli, primitivi
Niente di questo è vero in assoluto; la maggior parte dei batteri sono utili per la nostra salute, per produrre alimenti, per fertilizzare il suolo etc etc.
E, benchè invisibili a occhio nudo, sono estremamente complessi. Dobbiamo ricordare che hanno alle spalle una storia evolutiva di adattamento all’ambiente di milioni di anni più lunga di quella del genere umano e quindi sono “complessi” e “sofisticati”Questa notizia, della loro capacità di utilizzare le alghe, cade a proposito in questo periodo in cui anche il genere umano si pone il problema di aumentare e diversificare le proprie fonti alimentari; non solo alghe ma anche insetti e prodotti di linee cellualari
Forse dovremo imitare “l’adattabilità” dei batteri?
Commento del prof. Lorenzo Morelli, Presidente Scientifico Fondazione Istituto Danone