Una cosa è certa: non siamo soli. Il nostro organismo è popolato di numerosi “ospiti” – se così si possono chiamare i numerosi microrganismi che colonizzano la pelle, le mucose e l’intestino di ogni essere umano. Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale l’interesse della comunità scientifica per questi microrganismi che insieme rappresentano il cosiddetto microbiota, dal momento che questi microbi hanno il potere di influenzare nel bene e nel male la nostra salute. Ci proteggono infatti dai patogeni, “istruiscono” il sistema immunitario e contribuiscono al buon funzionamento del metabolismo. Da notare che quando si parla di microbiota non si fa riferimento a qualche decina di microbi: ogni individuo sano infatti porta con sé circa 1.000 diverse specie di microrganismi e la composizione e il numero degli abitanti di queste comunità può variare per diverse ragioni non sempre facili da determinare e controllare. E se dai microrganismi si passa poi ai loro geni – il microbioma – i numeri diventano ancora più strabilianti: in ciascun essere umano si contano circa 750.000 geni microbici, una cifra 30 volte superiore a quella che rappresenta i geni del genoma umano.
Sempre protagonisti, in salute e malattia
Una comunità tanto vasta in numero e composizione merita senza dubbio l’attenzione del mondo scientifico e ne sono prova i due grandi progetti attualmente in corso che mirano a conoscere i dettagli del microbiota: lo European Metagenomics of the Human Intestinal Tract (MetaHIT) e lo Human Microbiome Project (HMP) finanziato dai National Institutes of Health (NIH) statunitensi. I risultati di questi progetti, uniti a quelli di numerosi altri studi internazionali, dimostrano come la salute del microbiota sia la chiave per la salute degli esseri umani e che in molte patologie comuni c’è in realtà lo zampino del microbiota, in particolare di quella comunità molto numerosa e complessa che popola l’intestino e che un tempo era anche nota come “flora batterica intestinale”.
Premesso che l’intestino è popolato non solo da batteri, ma anche da altri tipi di microrganismi (inclusi alcuni virus) è possibile oggi dare un quadro solo parziale delle malattie nelle quali sono coinvolti rimodellamenti o problemi al microbiota. Innanzitutto bisogna notare che la relazione tra cambiamento del microbiota e malattia non è a senso unico: la patologia può modificare la comunità microbica così come i cambiamenti del microbiota possono influenzare la patologia. Di certo comunque i microrganismi che ospitiamo hanno un ruolo in malattie come il diabete, diverse patologie intestinali (dall’infezione da Clostridium difficile alla malattia infiammatoria intestinale cronica) e recenti studi mettono in luce anche un ruolo nell’obesità e in alcuni disturbi dell’umore.
Il giusto nutrimento per i nostri (graditi) ospiti
Di cosa si nutrono i microrganismi che popolano l’intestino? In pratica di quello che noi mangiamo e quindi anche degli zuccheri (intesi come carboidrati). Sulla rivista Trial è stato recentemente pubblicato il progetto relativo a uno studio pilota nel quale analizzare proprio il ruolo dei prebiotici – carboidrati non digeribili che possono modificare il microbiota intestinale – nel controllo della glicemia in pazienti con diabete di tipo 1 di età compresa tra 8 e 17 anni. Come spiegano gli autori dell’articolo, alla base del progetto ci sono i risultati di altri studi che dimostrano come il microbiota dei pazienti diabetici di tipo 1 sia diverso da quello delle persone sane e come i prebiotici siano in grado di modificare alcuni aspetti del metabolismo che si modificano in presenza di diabete di tipo 1.
“È stato dimostrato che i prebiotici sono in grado di migliorare la tolleranza al glucosio e di aumentare alcune popolazioni batteriche che risultano scarse nei pazienti con diabete di tipo 1” spiega Josephine Ho, primo nome dell’articolo. E nel diabete di tipo 2 i prebiotici migliorano i livelli di emoglobina glicata, i picchi di glucosio post-prandiale e i livelli dei marcatori di infiammazione. “I prebiotici potrebbero rappresentare quindi un trattamento semplice da usare ed economico da aggiungere alle terapie classiche del diabete di tipo 1 per aiutare i pazienti a tenere sotto controllo la glicemia” concludono gli autori.
Board: Fondazione Istituto Danone
Fonti:
1. Shreiner AB, et al. Curr Opin Gastroenterol. 2015 Jan; 31(1): 69–75. 2. Ho J, et al. Trials. 2016 Jul 26;17(1):347.